giovedì 24 febbraio 2011

inizio "70, un'altra collina...

litorale di Prà anni "70

anni "70
Rientravamo alla sera, a me sembrava notte inoltrata e la mia sorellina dormiva seduta a fianco, osservavo dal finestrino posteriore della macchina di famiglia gli stralci di ponente in grigio e nero che scorrevano tra le luci gialle delle industrie e del porto, poco oltre l'invalicabile confine creato da ferrovia e alte cancellate color ruggine, pareva un viaggio ogni volta, sino ad arrivar a Sampierdarena ed imboccare la sopraelevata, saltar a piè pari la città più vecchia, incontrare il Bisagno e i dintorni di casa.
Tornavamo da una giornata passata da una coppia di anziani, contadini o meglio: "manenti" cioè senza proprietà, amici dei miei genitori, che vivevano da sempre nella lunga e sottile Valle di Palmaro, nell'interno di Prà, la chiamavano "in branega", per arrivarci si percorreva una strada stretta e tortuosa e la si risaliva per un pò, si superava una fonte di preziosa Acqua Solforica, giungendo ad un cancelletto ed un viale sulla sinistra che scendeva un pò sotto la strada, si entrava in un giardino di rose che profumavan già di sciroppo, grasse gardenie, margherite bianche ed erbe aromatiche dinnanzi ad una casetta a due piani, tinta di rosso mattone.

Da ragazzini il tempo si dilata o corre veloce, con poca aderenza alla realtà degli adulti, così mi pare fosse tantissimo il tempo che avevo a disposizione in quei fine pomeriggio per annusare ed osservare quel luogo. Ricordo dei cani da caccia, davvero da caccia, ne intravedevo sul retro della casa le ombre nervose, e sentivo i guaiti agitati, ma solo col padrone avevano contatto se non con le prede, le lepri o i fagiani, per le quali spesso eravam conviviali invitati.

Un robusto capanno di legno appoggiato al muro di confine custodiva un segreto tradito dai suoni e dai canti che uscivano dalle feritoie tra le assi, qualche decina di gabbiette di legno e metallo, piccoli parallelepipedi dove sgambettavano singoli uccelli, merli acquaioli o beccacce, un ciuffolotto ed una cincia bigia, un grassoccio culbianco e qualche minuto fringuello, ma grazie all'amore dell'uomo per il vino capitava che qualche uccelletto riuscisse a fuggire. Erano il frutto di agguati col vischio, di trappole e reti o di scambi con i cacciatori delle Valli vicine, erano quello il "richiamo vivo"per procurarsi la materia prima, l'essenza del sugo, di quel "Toccu de eusgelletti", in cui ci finiva anche qualche pallino di piombo ma il cui profumo ne stabiliva il primato.

I campi, le fasce coltivate ad orto, erano poco distanti dalla casa ma forse per via della giornata di festa non occorreva andarci, gli ortaggi si trovavano già mondati su un lavandino di marmo grigio e la moglie, la nuora e mia madre era lì che subito si riunivano, a preparare e chiacchierare, in una spaziosa cucina addobbata di fiori in ogni stagione, e di centrini. E gli uomini fuori. Nella piccola aia una tettoia proteggeva il braciere con su il pentolone, nell'acqua bollente mio padre scendeva pian piano la farina di mais mentre l'anziano amico di casa girava metodico e potente quello che a me pareva un bastone, un remo o un cucchiaio gigante, a mescolare l'impasto, a quel punto c'era ancora un bel pò d'aspettare per la polenta.

Entravo ed uscivo da casa recuperando ogni volta un bicchiere colmo di sciroppo di rose e un bel pezzo di focaccia di patate, andavo a mangiarla vicino al recinto dei conigli: uno spiazzo dove la terra era più dura e rocciosa, ombreggiato da un robusto albicocco e circondato da un fitto steccato alto forse un metro, all'interno vivevan spensierati alcuni conigli con la propria famiglia, tra ciuffi d'erba, pietre e buche, saltavano e correvano a piccoli gruppi, i maschi più grossi si mostravano fino coraggiosi, dritti sulle zampe posteriori ad annusare l'aria masticando nervosi una pagliuzza e i piccoli balzavano su ogni pezzetto di focaccia che non avrei dovuto lanciargli. Vivevano lì e si riparavano in una batteria di casette leggermente sollevate da terra, vivevano sino al giorno del pranzo che li avrebbe visti, uno ad uno, protagonisti.

A tavola c'era sempre anche qualcuno che non c'era la volta precedente, sulla tavole dell’epoca il vino era o dolcetto o barbera, quella era una tavola da barbera, ma non mancavano il bianco della vigna e un vino dolce e passito al quale potevo accedere anch’io, ricordo d'aver visto mia madre concedersi uno o due bicchieri solo in quelle occasioni, e la ricordo ridere alle battute in genovese. La lepre coi pinoli, spesso presentata di secondo, non mi entusiasmava così lasciando il pesante piatto di ceramica ripulito dalla polenta, con tutte le ossette succhiate per bene e messe da un lato, mi affrettavo in giardino tra lucciole e rane. Tranne quando era stagione di castagne, allora bollite o arrostite che fossero mi fermavo ancora un pò a tavola.

Ho imparato in quei pomeriggi a ricaricare le cartucce da caccia, a smontare e pulire il fucile e a tirare per bene per colpire il bersaglio con la prima scarica di pallini, l'adulto che mi fu maestro era il più giovane, il figlio, lavorava in città e conservava la caccia neanche troppo esercitata come ultimo frammento che avrebbe legato la sua esistenza alla dimensione in cui vivevano i suoi vecchi, forse non lo sapeva mentre ci esercitavamo a sparare sui tronchi tagliati a seccare, o forse allora non ci voleva pensare.

La fabbrica, le fabbriche poco più sotto, di stabilimenti e officine s'era riempita la costa, già dall'estate passata non si poteva più andare sugli scogli e fare il bagno subito dietro alla ferrovia di Prà, da qualche mese i riempimenti erano cominciati, a vista d'occhio allontanavano il mare dalla cittadina. Nascevano però opportunità che trascinarono giù dalle Valli e dalle colline gli uomini e le donne più giovani, con la speranza dell'emancipazione di una cucina di formica e di un alloggio urbano, ma anche di una vita sociale e moderna, in sincronia con tempi, tempi che stavano dimenticando ai margini cicli vitali atavici, che costituivano una struttura sociale e morale.

Come Agostino in molti rientravano dai vecchi solo per le feste e abbandonavano rapidamente le attività rurali inseguendo l'illusione di diventare operai e Cittadini, in realtà trasformandosi in "consumatori" e come lui in molti dopo pochi anni si son trovati il destino fagocitato dalla ristrutturazione e dalla globalizzazione che ha devastato l'assetto produttivo della Città, dopo averne devastato il territorio.
Qualcuno se l'è cavata più o meno, ma le vittime non si contano tra le persone inadeguate al nuovo ritmo della produzione al massimo utile, per alcuni l'impossibilità perpetuare antiche modalità di relazione e rapporti ha compromesso profondamente l'esistenza. Ma il danno non si limita al suicidio di povera gente.

Quello a cui ho assistito nei primi anni "70, che osservavo ignaro coi miei occhi di bambino, è stata la mancata consegna di una molteplice eredità culturale da una generazione a quella successiva, sulla disillusione della prima e sull'ingenuità della seconda si è innestata un'idea cinica di sviluppo che ha destrutturato antropologicamente un Territorio, una popolazione, forse definitivamente.

giuseppe"11
... "a Francesco B."



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